Manrico Marinozzi

Antologia critica (II)

Manrico Marinozzi, pittore marchigiano di Pollenza, come sempre accade, conosciuto forse più fuori che nella sua terra come uno dei migliori talenti nel ricreare lo stile degli antichi maestri dal ‘600 all’800. Di carattere mite, affettuoso con tutti, innamorato di tutto ciò che aveva il fascino del tempo inteso come lusinghevole motivo della presenza creativa dell’uomo in esso, Marinozzi era nato artista.
Per questo forse si era fatto da solo, cominciando giovanissimo — al di fuori di scuole e accademie — ad interessarsi prima di scultura e poi di pittura. Veniva sì da una famiglia di esperti e scrupolosi antiquari, ma per Manrico Marinozzi l’arte era anche milizia creativa. [...] Marinozzi della pittura aveva fatto una professione, motivo dominante della sua vita, e con l’andar degli anni aveva chiarito a se stesso un modo non nuovo, ma serio e inusitato di far pittura.
[...] Così nel fascio di luce di un Magnasco, del Guardi, di Marco e Sebastiano Ricci, il marchigiano Marinozzi visse la sua stagione artistica senza uguali, apprezzato e lodato da molti critici d’arte che ne esaltavano la mano sicura, la spigliatezza, l’estro creativo. Da decenni si era appassionato a questo lavoro, in cui era divenuto insuperabile. Molte sue opere sono oggi conservate in chiese, musei, case patrizie. [...] Tra i discepoli d’un tempo ne ricordava soprattutto uno, che aveva fatto strada: Failla, il pittore delle monachine [...]. ( Ermete Grifoni - Finestrella, Rai Marche, 05.04.1973)

"Costiera amalfitana",
olio, cm 70 x 95 (Collezione privata).

Manrico Marinozzi seguì sin dalla fanciullezza le orme paterne, rivelando ben presto una spiccata tendenza per la scultura e quindi per la pittura, nelle quali cominciò a trasfondere i sentimenti del suo animo e del suo carattere. Cesare Mercorelli, il notissimo pittore tolentinate, anche lui scomparso, gli predisse un brillante avvenire, il che lo incoraggiò tanto da trasferirsi a Roma per perfezionare la sua tecnica sotto la guida di valenti maestri.
Ma dopo qualche tempo dovette tornare a Pollenza per continuare l’attività del padre malato, senza tuttavia rinunciare al suo hobby, quello per il quale aveva espresso le sue preferenze: scultura e pittura, con una spiccata predilezione per i grandi maestri del ‘500, ‘600 e ‘700, allo stile dei quali si ispirò con successo lavorando su tele antiche [...].
Dipinse a decine paesaggi, ritratti e soprattutto fiori di ogni specie, dando sfogo al suo vibrante realismo, alla sua sensibilità, al suo amore per la natura, di cui cercò, sia per quanto riguarda la cromatica, sia per quanto concerne la tecnica e i giochi di luce, di essere un fedele interprete. (Fernando Scattolini - Il Resto del Carlino, 04.04.1973)

Una finestra aperta sul mondo. Il primo sole di primavera brilla nel cielo azzurro. Dal suo studio di via Leopardi a Pollenza il pittore Manrico Marinozzi ammira estasiato l’ubertosa valle del Potenza, il fiume sinuoso laggiù tra il verde dei prati, le colline degradanti dolcemente verso il mare. È un paesaggio incantevole e suggestivo che ricrea lo spirito e dà ispirazione.
Sul cavalletto, fresca di colori, una delicata composizione floreale, un cantico sommesso alla natura che si ridesta. Sarà l’ultima opera creata dall’artista, l’ultimo omaggio del pittore ad un mondo di purezza e di beltà. (Alvaro Valentini - Arte Nuova Oggi, Marzo-Aprile 1973)

Una foto di Manrico Marinozzi
come scultore di arte sacra

Manrico Marinozzi lascia una vasta opera pittorica, permeata da uno spirito romantico lieve e gentile. [...] Stupende nature morte, paesaggi eleganti, ruderi rinascimentali, soggetti rustici, delicati fiori, marine incantevoli. [...] Tecnicamente perfette poi le sue composizioni di gusto seicento e settecentesco, pitture di stampo antico molto eleganti e decorative sulle quali l’artista ha lasciato l’impronta di una fantasia originale [...]. Ma dietro l’apparente piacevolezza delle sue opere c’è sempre una commozione muta e solenne, dietro l’eleganza delle sue composizioni c’è sempre una spiritualità sottile e sognante. Un silenzioso lirismo s’innalza dalle sue tele e in un’estasi suggestiva eleva l’animo alla contemplazione. (Alvaro Valentini - Corriere Adriatico, 05.05.1973)

A parte il caro ricordo di una persona corretta e profondamente umana, Manrico Marinozzi (la cui mostra si è tenuta nei giorni scorsi a Pollenza) con le sue molteplici opere ci ha lasciato un bagaglio artistico di notevole valore sia tecnico che stilistico. Se la sua vocazione era per l’antico (come pochi altri sapeva riallacciarsi alle opere dei grandi vedutisti e degli esaltatori della natura morta del ‘600 e ‘700), ciononostante Marinozzi amava dipingere modernamente secondo larghe pennellate dei macchiaioli e le vibranti cromie di Spadini e degli altri pittori romani.
Vedere opere come "Casa dietro gli alberi" o "Le panchine" è come imbeversi di arte contemporanea, intesa nel senso migliore e più significativo. Inoltre la bravura di Marinozzi si estende a tutte le bellissime nature morte, magnificamente rese ed espresse iperealisticamente con un sottile velo di surrealismo, come: "i lumi", "i melograni", "i limoni", alcuni uccelli e altra frutta. Ottime anche le fresche tavole dipinte a Porto Recanati, con le memori "paranze" e tutte quelle altre opere spontanee eseguite di getto, cosa che gli era molto congeniale e che pochi sanno attuare.
Ricordiamo anche la bella serie dei ritratti, tutti bene impostati ed espressivi, come il suo autoritratto "rembrandiano", in cui si effigia alla maniera dei grandi pittori del passato, con un cipiglio che gli era insolito. Arditissimo e forse il più moderno come concezione è il quadro: "L’attesa del chierichetto"; come pure spicca per novità di soggetto e resa cromatica l’opera "Le mie terre" (colori che l’artista preparava da solo). (Virgì Bonifazi - Il Resto del Carlino, 22.09.1984)

Luce, che i prati di smalto / e le selve rivesti, / che il giorno ridesti e al tramonto / le nuvole tingi le vette / di rosso, di rosa, di viola, / che stendi sui mari, nei cieli / un velo di vivido azzurro, / che dai vita agli esseri e splendi / negli occhi, m’inebrio di te / e a te mi volgo come eliotropio. / Sei forza, anelito, amore; / sei simbolo eterno del vero, / del segno, del giusto ...
È una tavolozza ricca di uno splendido cromatismo poetico, redatta dal poeta Ascenzo Montebovi e inserita in uno dei sette volumi, titolata "Luce"; è ricca di ben quattro colori, cari all’artista pollentino Manrico Marinozzi, al quale dedichiamo questa "Cartella" nel ventesimo anno della Sua scomparsa.
L’abbiamo iniziata così con i versi della poesia: "Luce" a chi ha dedicato tutta la vita all’educazione scolastica e all’amore per l’Arte, ed oggi si trova proprio a Pollenza, nella patria del nostro artista, con la speranza e l’augurio di tutti che gli ritorni la memoria, inspiegabilmente smarrita. [...] Pollenza città d’arte e di cultura quasi leopardiana [...]. In questo ambiente, in quello familiare pregno d’arte, di artigianato, di antiquariato, nacque il 17 dicembre 1903 Manrico Marinozzi... un autentico autodidatta dall’abc alla sintassi dell’Arte [...].
Prese a modello, non per imitarli, né per interpretare certe e determinate impostazioni, ma per seguirli nello stile e nella coloritura: Claude Lorrain, un francese, e Pieter Gaul Rubens, autentico fiammingo, e forse forse il Guercino. [...]
Non si stancava mai di operare, sia nel campo del restauro che della scultura, ma soprattutto della pittura. [...] La sua serietà professionale [...], la vocazione sincera e aperta nel campo dell’arte, la vita familiare e civica, sono le cose più interessanti che hanno vestito un uomo che ha onorato la famiglia, Pollenza, le Marche [...]. (Nello Biondi - Cartella d’arte n. 14, 1993)

"Panchine",
olio, cm 40 x 50.

[…] La buona borghesia marchigiana - e non pochi mercanti romani e toscati - intendono la visita a Pollenza come l'occasione per frequentare quegli antiquari che da tre generazioni si tramandano un mestiere dove quello che fa la differeza è anche la passione e il gusto. […]
Manrico Marinozzi apparteneva ad una di queste dinastie di antiquari, restauratori, intagliatori, decoratori, capaci di sollevare dalla decrepitudine qualsiasi oggetto o mobilio condannato dalla formica e dal modemismo. Aveva un carattere dolce ed un’istintiva disposizione alla vita. Una vecchia foto lo mostra mentre dipinge en plein air vestito di tutto punto, in tweed, come se dipingere non fosse un lavoro o uno sfizio, ma un lusso. Ogni resistenza di materia - fosse legno, creta, marmo, bronzo - nelle sue mani diventava lenta e docile.
In due statue di bronzo che raffigurano Cristoforo Colombo e Dante Alighieri, messe ad adornare la facciata della chiesa dei SS. Antonio e Francesco, nell’appiombo delle loro forme ha trasfuso una mitezza pensierosa e nostalgica e paiono uscite dalla costola del miglior classicismo. Ma era la pittura la sua passione, da quando bambino aveva veduto due quadri di fiori di un maestro secentesco capitati in bottega che nella vecchia soffitta per ore ed ore aveva provato a ricopiare, ricreando quella mota preziosa di colore che diventava forma ed emozione.
Digiuno di scuola e di accademia, Marinozzi prese ad imitare i fiamminghi, i veneziani, Canaletto e Guardi, Hubert Robert e Salvator Rosa: si concesse il piacere di rifare quei paesaggi d’idillio con foreste spumose dove s’addentrano pastori, levrieri e cavalieri, con specchi fermi di lago dove sullo sfondo compaiono esili torrette e minareti della Barberia. Marinozzi aveva trasformato la sua tana da lavoro, il deschetto della fatica, in una sorta di studio e di cenacolo, in via Peschiera, gettato su quel paesaggio pollentino di dolci naufragi d’infinito.
Aveva un carattere mite e gentile, dipingeva gli stendardi delle confraternite, i medaglioni dei letti. "Faccio il mio mestiere e se mi sboccia, frattanto, l’arte, se arrivo all’arte è gioia tutta mia intima, gioia, gioia". Ed all’arte Marinozzi è giunto, nelle tele dove gli oggetti, gli interni, le panchine, i panni al sole conoscono un modo di stare nella luce, di accordarsi con l’aria che lievita attorno, trasmettono una joie de vivre come un’intonazione meravigliosamente solare che è degna del miglior impressionismo. […]
Sono nell'ufficio del sindaco, in attesa che la guida si procacci le chiavi per accedere alla Pinacoteca Comunale. Sulle pareti della stanza sono appese le opere di quegli artisti che, sulla scorta di Marinozzi, negli anni hanno dato vita ad una "scuola di Pollenza": pittori partiti dal paese ed approdati nella capitale, nelle città d'Europa dopo aver conosciuto la fama ed il favore della critica, e poi ritornati. […]
Di fronte, come un canto in minore, alcune opere di Fabio Failla disegnano immagini nitide, geometrie cristalline, dove quel distacco che nella vita sarebbe sconveniente, nell’arte diventa serena armonia contemplativa. L’artista, discendente da una famiglia pollentina che ebbe per parte di madre tra i suoi avi Alessandro Manzoni, Massimo d’Azeglio e padre Matteo Ricci, sfuggito alla prigionia tedesca nel 1943 si rifugiò a Pollenza e fu Manrico Marinozzi che gli dette i pennelli, le tele ricavate da vecchie lenzuola preparate con gesso e lo ricondusse a quella pittura intimista, disciplinata, piena di silenzio, divenuta celebre per le vedute di Roma con piccole comparse di pretini, seminaristi, monachelle svolazzanti dai copricapi aeriformi.
Una pittura dove spesso, in mezzo a quei colori pallidi e lievi, dipinti come sulla seta, tra il rosa convalescente, il grigio appena tinto d’azzurro, compaiono gli steli svettanti dei piccoli campanili, le tegole minute come tessere dei tetti di Pollenza. (Lucia Tancredi, Racconti di viaggio. Le città d'arte della marca maceratese, pp.172-176, 2003)

Prima parte

E-mail: gesunuovo@yahoo.it

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