Carlo Urbani Elisabetta Nardi - Egidio Ridolfo s.j. |
Carlo Urbani: una vita solidale -- Una Scuola intolata a Carlo Urbani -- Messaggio ai ragazzi della madre di Carlo -- Scritto di Carlo Urbani in memoria del Parroco Don Dino -- Intervista alla madre di Carlo Urbani -- Pensieri di Carlo Urbani -- Poesia in memoria di Carlo Urbani
Essenziale semplicità
Scritto di Carlo Urbani in ricordo del suo parroco, Don Dino
Anche quando il silenzio cessa, rimane un gran vuoto.
Nell’ora di religione c’era un gran casino in classe. Alcuni addirittura fuggivano dalla finestra, aperta nelle calde mattine di primavera. Ne rientravano con in mano rami grondanti ciliegie. Si giocava, si mangiava, si litigava, in un sovrapporsi di rumori. Seduto in cattedra, il prete era intento a leggere, con la voce calma di una conversazione nel quieto oratorio. Completamente ignaro di quanto accadesse.
A volte alzava lo sguardo e sorrideva, e al suono della campanella salutava chiedendo di essere più bravi la prossima volta. "Ciao Don Dino", rispondevamo urlando. Nell’ottusa prospettiva di adolescente non vi riconoscevo un padre dello Spirito, ma un accondiscendente tutore.
Si correva la domenica per entrare in sagrestia, in anticipo quanto bastasse per aggiudicarsi una cotta. Gli ultimi metri, fino agli attaccapanni grondanti vesti bianche e rosse, si facevano tra spinte e calci. Lo stesso per aggiudicarsi campanello o incensiere. E su tutto la voce calma di Don Dino: "Bravi…siate bravi…silenzio…" e poi in fila per sfilare dietro di lui entrando in chiesa. Nel silenzio della celebrazione la sua voce infondeva calma.
C’erano pomeriggi caldi, e dopo pranzo la scala per salire all’organo profumava di fresco, incenso e muffa. Quando la riscendevo, dopo qualche mezz’ora, Don Dino era lì che mi aspettava, in genere seduto nella poltrona alla sinistra dell’altare maggiore. Si sventolava con il tripunta, e sorridendo salutava "Bene bene, bravo bravo…"
Lo rivedevo la domenica, dall’armonium dove ero seduto. Ricordo le sue messe, di una semplicità essenziale. Leggeva con chiarezza il Vangelo, scandendone le parole, e la predica era di freschi ed a volte ingenui pensieri. La sua era una religione fresca, di chiari, semplici ed essenziali concetti. Sapeva trasfondere affetto con le sue carezze o la mano appoggiata alla spalla, questo lo ricordo.
Nei dopocena d’inverno a volte si andava al Consiglio Pastorale, o alla San Vincenzo de Paoli. Tra animi contorti ed attriti atavici, l’unica costante era la sua calma. La sua sola presenza scoraggiava lo scontro, univa gli intenti. Non per una forte personalità, né per una innata pulsione di leader, ma per la sua disarmante bontà. Nei disaccordi la conclusione era "Come prendersela con Don Dino…è così buono!".
Negli scontri giovanili, nelle contestazioni passionali, lui sfuggiva alla mira. Anche quando ero contro tutto e contro tutti, Don Dino non era mai un bersaglio. Non riesco a ricordare averlo contraddetto, o non aver apprezzato la sua mano. Di una Chiesa che sfuggiva al suo mandato, Don Dino ancora rappresentava la Santa Semplicità e la silenziosa adorazione. Come non ricordare la sua voce, in ginocchio con il capo basso, intrecciata al penetrante incenso o alle tremolanti luci. A volte sembrava temesse guardare negli occhi mentre la sua mano appoggiava l’Ostia tra le mie labbra. La sua discrezione era profondo rispetto. Nel confessionale mai imbarazzi, ma un dolce sapore di perdono.
L’essenziale. Ricordo un sabato le prove per la messa. Avevamo deciso di cantare una canzone di Fabrizio de André, dal suo contestato disco "La buona Novella". Erano gli anni '70, e tutto per noi doveva essere estrema passione e trasgressione. La canzone era "Maria tra la gente" ed il testo era un po’ inusuale, ma rispettoso.
Scendendo dall’organo trovo Don Dino in sacrestia, e gli chiedo se gli fosse piaciuta la musica. Chiarisco che però non veniva da un libro di chiesa, ma scritta da un autore che non sapevo neanche se fosse credente. Rispose che la musica era così bella che solo un animo intimamente indirizzato a Dio poteva averla scritta. Ricordo che commentammo tra noi di non sapere di avere un prete tanto progressista! Quel canto lo facemmo ad una sola messa. Alcuni ne riconobbero la natura e sconsigliarono a Don Dino dal farlo cantare ancora in chiesa. Ma lui, il prete "semplice e troppo buono", quella canzone l’aveva gustata proprio!
Don Dino: "Leggeva con chiarezza il Vangelo, scandendone le parole... La sua era una religione fresca, di chiari, semplici ed essenziali concetti...." |
Chi ricorda una sua predica? Chi ricorda un suo preciso pensiero? No, ricordo solo la completa semplicità. Il Vangelo spiegato da lui diventava una favola, e quando raccontava del Padre che si indirizzava agli ultimi e ai diseredati, il suo linguaggio essenziale e disarmante non poteva essere più appropriato. Non suoi pensieri, ma la sua lettura semplice ed incantata dello splendore delle Parole del Padre. Questo ricordo. Di tanti predicatori saccenti ed arroganti, di tante parole ricche e ricercate, di concetti duri, di un credo gridato e imposto, la religione di Don Dino era solo una semplice e buona ricetta. Il suo sapore mi ha accompagnato negli anni.
Nella vita, con gli anni, l’attenzione a me, agli altri, restava immutata. Mi chiedeva come andassi, con lo stesso tono di quando entravo in sacrestia come chierichetto, di quando, molto più tardi, entrava nel mio ambulatorio medico.
In ginocchio nel confessionale, ricordo le sue domande, regolari, discrete, immutate negli anni. Tanto che, inginocchiato di fronte a lui, non potevo non sentirmi, anche se diventato padre nel frattempo, un bambino che chiedeva ancora perdono. Era questo forse il sentimento più bello che scoprivo nel suo confessionale. Quando tormenti e pesanti peccati mi tormentavano, lui mi riportava alla giusta dimensione, riconducendo all’essenziale la nostra condotta, di bambini davanti al Padre.
Le sere d’estate Don Dino passeggiava lungo la via piana, con il passo che con gli anni restava fermo, ma, si vedeva, perdeva vigore. Mi dispiaceva vederlo malato e bisognoso dei miei servizi di medico. Avrei voluto restituirgli la tenerezza che mi trasfondeva quando ero ragazzo. Ora era lui il fragile e vulnerabile, e mi sforzavo di parlargli con la stessa voce pacata e calda che lui usava con me, tanti anni prima.
Una notte corsi al suo letto, era difficile che chiamasse, per non disturbare, sapevo quindi che stava male. Si era scusato per tutto il tempo che sono rimasto con lui. Si scusava, io so di cosa. Di aver fatto rumore, di aver attirato l’attenzione su di se, di aver posto lui, Don Dino, al centro. Sono certo, era questo che lui di meno voleva fare.
Mi dispiace non mi abbia riconosciuto questa estate. Ci contavo che almeno una ultima volta mi prendesse la mano e mi chiedesse "Carletto, come va? Cosa fai ora? Dove sei?" e commentasse con esclamazioni di bambino le mie risposte, "Bene bene, bravo…" Mi dispiace non essere stato lì al suo funerale. Avrei voluto che risentisse la musica di quell’ organo, un’ultima volta suonato da Carletto per Don Dino. Avrei voluto le caldi note restituissero a lui la dolcezza ricevuta per anni. Era una questione di gratitudine, per cui avrei voluto suonare al suo funerale. Sono certo, ancora una volta, l’avrebbe fatto sorridere.
[9 settembre 1998]
Carlo Urbani: una vita solidale -- Una Scuola intolata a Carlo Urbani -- Messaggio ai ragazzi della madre di Carlo -- Scritto di Carlo Urbani in memoria del Parroco Don Dino -- Intervista alla madre di Carlo Urbani -- Pensieri di Carlo Urbani -- Poesia in memoria di Carlo Urbani
Parte I | Parte III |
"Orizzonti dello Spirito" |